Posted by on lug 24, 2014 in | 0 comments

JSP cova piani catastrofici. Ha dichiarato guerra alla spontaneità. E’ un degenerato, un falsario, un sofisticatore, un anti-cantautore. Ha celebrato la morte dei generi musicali. Alberga nella sua mente perversa la convinzione di divenire presto l’idolo dei vostri figli. Venuto alla luce nel 1989 nella città che diede i natali a William Shakespeare, cresciuto probabilmente sull’Isola di Man, pare si sia stabilito – dopo picaresco e spericolato peregrinare – all’ombra delle due torri di Bologna. Lo chiamano Johann Sebastian Punk, ma non è chiaro se questo sia il suo nome o quello dell’equivoca ghenga di ceffi – che rispondono ai nomi di Johnny Scotch, Albrecht Kaufmann e Pino Potenziometri – con la quale suole accompagnarsi. In terra emiliana ha trovato tedio, bruma, mediocrità. A questa estetica generalizzata contrappone sfarzo, artificio, spirito dionisiaco.
Johann Sebastian Punk parla e canta in inglese. E’ un inglese artefatto, goffo, parodistico, volutamente caricaturale, sgrammaticato, incomprensibile, lingua franca e universale di un mondo che sembra quasi chiederle in ginocchio di essere imprecisa, impura, distante da quella perfezione che lo Shakespeare che lo ispira fu capace di conferirle. E il mondo a cui Johann Sebastian Punk si rivolge è quello della musica, mondo che osserva beffardo e nostalgico roteare a vuoto. Trae il proprio nome dal compositore che la musica l’ha portata all’apice della complessità e dalla tendenza musicale che l’ha invece scarnificata con più ferocia. Da un lato il nome di chi guardava con aria derisoria le canzonette (così come Bach definiva l’opera) consapevole di stare attuando una rivoluzione e dall’altro il nome di chi alle canzonette è condannato perché il disastro nucleare è come se fosse già avvenuto e come se nessuna rivoluzione potesse avere più senso.

 

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